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Filippesi 2, 5-11

Ultimo Aggiornamento: 15/08/2022 11:19
12/02/2007 15:30
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Registrato il: 07/02/2007
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Vorrei proporre ulterori spunti di approfondimento nel merito dell'esegesi del passo di Filippesi, con il tentativo di rendere maggiormente implicito quale fosse il contesto in cui l’apostolo, inserisce questo famoso a detta di diversi esegesi “inno cristologico”.
Al v6 troviamo la seguente espressione, in riferimento alla pre-esistenza di Gesù, in quale esisteva prima dell’incarnazione, secondo l’affermazione dell’apostolo Paolo “in forma di Dio..."
L'uso del participio del participio "huparchon", tradotto con “essendo” o “sussistendo”, indica chiaramente nel pensiero dell’apostolo che Egli era già in esistenza prima della sua venuta, ma nel contesto, sottintende anche il senso, che assumendo la “forma di servo”, (che nell’antitesi sviluppata in opposizione alla prerogativa della Maestà che appartiene alla deità, vuole dire di “creatura”, di “essere creato”, di colui che deve è chiamato ad onore, a servire e riverire, in opposizione alla deità a cui spettano l’onore, il servizio, e la riverenza) che non cessò di essere ciò che era.
L’affermazione da cui parte il tutto di fatti suona in questo modo… “…il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso… … facendosi ubbidente fino alla morte”. Il processo di “spogliazione”, che in l’apostolo contestualizza nell’espressione “abbiate lo stesso atteggiamento”, non ha termine nel suo prendere “la forma di servo”, ma continua fino alla sublimazione della sua obbedienza, cioè la sua morte in Croce. L’analisi dei tempi dei verbi, mette in risalto che l'utilizzo dell'imperfetto seguito dagli aoristi evidenza di fatti la continuità dell'essere, nel tramite della sua incarnazione, in riferimento alla sua natura divina.
L'espressione in "forma di Dio", crea l'antitesi con l'espressione analoga "in forma di servo, ma l'analogia gioca sul fatto che così come era vero Dio, era allo stesso tempo vero servo al tempo della sua permanenza su questa terra, cioè vero uomo. Questo pensiero, cioè la necessità nell’opera di redenzione che Cristo, fosse tanto uomo, quanto Dio, è una “necessità” nello sviluppo soteriologico che l’apostolo Paolo mette in luce a più riprese nelle sue lettere. Emmaus, nel suo intervento, partendo dalla sua prospettiva non trinitaria, ha espresso bene la necessità che Cristo fosse figura di Adamo, e come “archetipo” del genere umano era necessario che Lui fosse pienamente uomo, non sub-uomo, non mezzo uomo, non falso uomo… ma uomo. Allo stesso tempo era necessario perché l’uomo fosse riconciliato a Dio, e l’opera di redenzione fosse realmente restauratrice della prima comunione tra l’uomo e Dio prima del peccato, che fosse Dio, non un sub-dio, o un mezzo dio, ma Dio perché avendo Cristo tramite il suo sacrificio pagato il prezzo pieno del nostro riscatto, solo se lui è realmente Dio, possiamo appartenere veramente a Dio. In caso diverso, se Lui non è Dio, noi siamo divenuti di diritto sua proprietà. Questi due presupposti sono evidenti nell’economia della soteriologia paolina. Altre cose non lo sono, L’apostolo non si interroga su come l’ipostasi possa concretizzarsi, su come le due nature possano convivere, tutto ciò non rientra nella sua sfera d’indagine, e non sembra per lui essere un insormontabile problematica.
Ritornando al passo di Filippesi, esaminando il contesto linguistico, ciò che esce “sminuito” della terminologia non è la natura divina di Cristo, che è chiaramente enunciata, senza alcuna ombra di dubbio, ma la sua natura umana.
Molti studiosi hanno approfondito il significato concettuale dell'espressione "forma", che designa ciò che è: "intrinseco ed essenziale", diverso rispetto alla parola "esteriore", che invece si rivolge a ciò che è esterno e fortuito. Nel contesto, in "forma di Dio", designa la natura e l'essenza della deità, che appartiene a Cristo. Cristo, afferma l’apostolo Paolo: “pur essendo in forma di Dio”, (ritorno ad affermare che l’espressione theos, non ha alcuna equivalenza con il termine ebraico elohim), ma il proseguo dell’affermazione chiarisce e toglie ogni dubbio sulla dignità in quanto a deità nel pensiero dell’apostolo: “non considerò l’essere uguale a Dio…” ; l’affermazione è chiara, nel contesto di questa specifica pericope, senza alcun dubbio l’apostolo asserisce che Cristo è Dio, non vi è alcuna possibilità di frainteso da questo punto di vista. Certo non esaurisce tutta la gamma di possibilità in cui questa asserzione paolina potrebbe confluire, nel “trinitarismo economico”, nel modalismo, nel monosifismo… ma trovano in altro luogo e in altre testimonianza scritturali la loro critica, ma rimane ferma nel pensiero dell’apostolo Paolo, almeno qui in questo passaggio della sua lettera ai Filippesi, l’asserzione che Cristo è Dio, da tutto ciò non si sfugge.
Nella "Kenos", nell’azione di spogliarsi, che l’apostolo Paolo esprime, troviamo in realtà espresso un processo. Volontariamente, afferma l’apostolo, rinunciò ai privilegi di cui aveva diritto essendo uguale a Dio, per poter prendere la forma di uno schiavo, e compiere l'opera di redenzione, divenendo simile agli uomini, e questo è un’atto di umiltà. Io trovo nell’espressione… “non considerò l’essere uguale a Dio, qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente”, un’affermazione importante, che ci permette di intuire che l’apostolo Paolo distingueva la personalità di Cristo, da quella di Dio Padre, in quanto Cristo essendo Dio, accetta l’opera che il Padre gli richiede, e non reputa la sua condizione di eguaglianza con il Padre, un ostacolo a questo. Questo è il primo livello “kenos”, di abbassamento, di umiliazione, di spogliamento delle sue prerogative divine.
L’apostolo non si interroga o non spiega come tutto ciò si possa concretizzare nella persona di Gesù, tace completamente sull’economia dell’ipostasi che si realizza in Cristo. Non sente la necessità di spiegare in quale modo le prerogative, e le qualità divine nella persona di Gesù vengono ad annichilirsi. Quello che invece evidenzia nel contesto e che Gesù agli occhi delle persone apparve in tutto simile ad un uomo, usa espressioni che tendono nel contesto ad enfatizzare la sua deità, piuttosto che la sua piena umanità.
Mi piacerebbe avere un contributo all’esegesi dei versetti che seguono che vanno dal 9-11, mi interesserebbe sentire restando attaccati al pensiero dell’apostolo Paolo in quale modo vengono letti
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